'Ndrangheta, Minotauro: ora parla la Cassazione

Pubblicate le motivazioni della sentenza. Un quadro davvero inquietante per il chivassese

'Ndrangheta, Minotauro: ora parla la Cassazione
Pubblicato:
Aggiornato:

Pubblicate le motivazioni della sentenza. Un quadro davvero inquietante per il chivassese

Anche se i contenuti sono fondamentalmente gli stessi letti in questi anni di cronaca giudiziaria, la lettura delle sentenza della Corte di Cassazione che ha chiuso definitivamente il «rito ordinario» del processo legato all’operazione contro la ‘ndrangheta «Minotauro» regala comunque degli spunti di riflessione.
Prima di tutto perché, nelle sue 264 pagine firmate dal Consigliere estensore Massimo Ricciarelli e dal Presidente Francesco Ippolito, fissa nero su bianco (e con dovizia di particolari) la presenza della criminalità organizzata calabrese in Piemonte.
Parlando di Francesco Ursino, i giudici ricordano come gli fosse stata contestato il «favoreggiamento» per aver aiutato Giorgio De Masi a sottrarsi alle ricerche delle forze dell’ordine, agevolandone la latitanza. Tre giorni dopo l’arresto di De Masi, Ursino aveva «avuto contezza» di una valigia dell’uomo e aveva provveduto ad inviarla a zia Sina. «Tuttavia - si legge ancora - era da ritenersi che coinvolto nell’ausilio al latitante fosse stato semmai Rocco Schirripa, padre della fidanzata dell’Ursino e collaboratore nel panificio del predetto». Lo stesso Schirripa ora alla sbarra, a Milano, per l’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia. Delitto per cui, negli Anni ‘80, era stato condannato come mandante Domenico Belfiore, la cui casa di famiglia, a San Sebastiano, era stata poi confiscata come bene di mafia e assegnala all’associazione Libera di don Ciotti che l’ha subito ribattezzata «Cascina Caccia». 
Tornando alla sentenza, analizzando la posizione di Stefano Modafferi i giudici confermano l’esistenza di una «locale» a Chivasso, operativa e a cui può essere imputato l’utilizzo del metodo mafioso. Stesse considerazioni fatte parlando di Bruno Trunfio, il cui ruolo è stato poi definito «dinamico».
Mettendo da parte questo fiume d’inchiostro, resta ancora aperto il giallo di Rocco Vincenzo Ursini, all’epoca 28 anni, scomparso nel nulla nell’aprile del 2009. Anche lui era quasi «genero» di Rocco Schirripa, in quanto fidanzato della figlia. Un caso subito definito di «lupara bianca», inserito dagli inquirenti nello scacchiere di un regolamento di conti in seno alla ‘ndrangheta. A parlare pochi mesi fa era stato un pentito cresciuto a Torino, Antonio Femia, 35 anni, che avrebbe deciso di svelare questo «segreto» al procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, e al pm Paolo Sirleo. Femia avrebbe rivelato nomi e cognomi di presunti affiliati alla locale di Moncalieri, per poi, come detto, fare il nome del killer di Rocco Vincenzo Ursini: che sia stato ucciso, è praticamente certo. Si tratterebbe di un pregiudicato residente nella Locride, a cui sarebbero arrivati anche i famigliari di Ursini. Il pentito avrebbe detto che l’uomo era «ricercato» su indicazione di Mario Ursini, boss e zio di Rocco Vincenzo. Di più, ad oggi, non è emerso, se non che da allora nessuno avrebbe anche solo sentito nominare il killer... Quella di Rocco Vincenzo Ursini è una figura particolare, anche perché all’epoca era fidanzato con la figlia di un altro pezzo grosso della malavita organizzata. Operaio, finito in cassa integrazione, era stato cercato dai famigliari anche con appelli a «Chi l’ha visto?». Da tutti era considerato estraneo al mondo della ‘ndrangheta, ma il suo nome era comunque finito nella certe dell’operazione «Minotauro» (come affiliato a Moncalieri), anche se accanto all’indirizzo i magistrati hanno aggiunto «scomparso».

Seguici sui nostri canali